Salto nel vuoto

E tu lo sai che nessuno ha fede cieca più di me

Chiudo gli occhi e sto pronto per l'impossibile

La prima volta che ho parlato ai miei genitori di scelte universitarie è stato nel lontano duemilaquindici, quando ho platealmente annunciato loro di volere scegliere Lettere. Mi aspettavo che volassero piatti, bicchieri, sedie, tavoli, auto, libri, fogli di giornale, e invece si è risolto tutto in un "Ok, noi ti supportiamo qualsiasi cosa tu faccia" (così tanta ansia per niente?).
Gli anni sono passati, le mie certezze sono crollate: tutte, inesorabili, tranne una.


Io e mio padre cenavamo in silenzio, ieri sera. Poi, di punto in bianco gli ho chiesto a cosa pensasse. Sovrappensiero, ha risposto "Lavoro, solita roba", intanto che masticava, assente, un pezzo di mela.

"Secondo te se scelgo Lettere resto morta di fame?" ho chiesto d'improvviso, con il cuore in gola, pronta ad ingoiare l'amara verità e ad incassare un colpo che non sapevo se sarebbe arrivato. Scuola, università, lavoro, tutti argomenti dolenti.

I suoi occhi verdeazzurri si sono rivolti verso di me con un'attenzione nuova, sempre velati dai pensieri che celavano.

"No" ha risposto, con mia immensa sorpresa."Nel peggiore dei casi campi con uno stipendio da insegnante, che va bene. Ma intanto scrivi" ha poi continuato.

Abbiamo un po' parlato dei vari percorsi futuri che la facoltà di Lettere Moderne comprende e che perfino l'ultima spiaggia ha sabbia dorata e morbida e mi accoglierebbe benevola come una viaggiatrice, anche se solo di passaggio. Mi ha detto che "Bisogna avere creatività nel lavoro che vuoi fare. Devi sempre trovare ispirazione, devi parlare con tanta gente che ha i tuoi interessi, così ti evolvi e ti confronti. Io non l'ho fatto, con il mio lavoro, e ho sbagliato", ed io gli ho risposto che non è l'ispirazione il problema. E nemmeno la grammatica, come dice lui. E nemmeno l'editing, le opinioni di un esperto. E nemmeno tutta un'altra serie di problematiche che mi ha posto davanti.
"Non ho paura di non essere brava abbastanza, papà" gli ho detto, senza nascondere che so di essere brava, perché certe cose si capiscono (sebbene nel grande mondo della letteratura ci sia e ci sia bisogno di tanto relativismo e gusto personale). "E' che... non lo so, la zia storce il naso ogni volta che parlo di Lettere Moderne: dice che non è una vera facoltà, che non esiste, non porta a niente e che Lettere è solo ed unicamente Lettere Classiche".
Allora mi ha guardato e mi ha chiesto quale fosse la differenza, in pratica, tra le due. Io, diligente, gliele ho indicate una ad una, evidenziando gli sbocchi lavorativi ed accademici, terminando con un "la differenza è che Lettere Classiche non fa assolutamente per me, mentre Lettere Moderne sì".
"La zia ha la lingua più veloce del cervello: dice una cosa prima di pensarci su" è stata la sua risposta; l'argomento si è chiuso in questo modo.

Non so cosa spinga un genitore a fidarsi così di un figlio. 
Non so cosa dia loro la certezza che non incasinerò tutto e che un giorno avrò i miei sforzi produrranno dei risultati reali.
Perché se io fossi genitore, con la mentalità che ho a diciassette anni, beh, i miei figli non avrebbero vita facile a riguardo.
Non so cosa abbia spinto mio padre a guardare oltre i soldi, la crisi, i suoi guai e il suo vissuto personale e a dirmi, anziché "cerca un posto fisso", "fai quello che ti piace". E' perché gli ricordo se stesso? Con gli stessi capelli biondi a coprire una testa piena di idee e a sfiorare un petto pieno di vita e voglia di fare? Oppure perché si fida, anche se non lo dice, anche se non lo dà a vedere, delle capacità di sua figlia?
Mia madre traballa, a volte. Parliamo di futuro, intanto che lei lava i piatti e, casualmente, mi chiede "Ma sei sicura di fare Lettere? Medicina come vorrebbe nonna? Giurisprudenza -che è bella tosta-? Architettura, design, come papà? Ti insegnerebbe i trucchi del mestiere e-"
"Lettere, mamma. Solo Lettere".
Mi guarda con i suoi occhi pieni di sogni diluiti in anni di sacrifici e capisce, suo malgrado, che non potrà cambiarmi, che dovrò lottare con le unghie e con i denti per quello in cui credo e per avere ciò che voglio dalla mia vita.
Le righe che legge dal mio laptop quando lascio la schermata di Word incustodita le sono bastate a intuire un talento che, però, non sa come spenderò. (In realtà, nessuno può sapere come lo spenderò: io, al momento, non sono ancora dotata di sfera magica e qualità di chiaroveggenza).

La scelta del corso di laurea è comprensivo del 100% di salto nel vuoto. 
Non so a cosa porteranno le mie azioni; non so neanche quali saranno le mie azioni. So solo che sarò forse ancora più caparbia di quanto lo sia oggi e che punterò in alto. Mi dovrò costruire delle ali (magari in fibra sintetica e nylon, perché al nostro caro vecchio Icaro è andata un po' maluccio con la cera) per volare fin dove il mio ego e la mia ambizione mi propellono.

Spero, credo, prego. 



-Sì, esatto, 3 persona plurale di propellere, l'ho anche dovuto cercare-




Un po' più speranzosa, vostra
-Maria Federica

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