Una cosa che avevo bisogno di dire

Esistono parole, confessioni, che, presto o tardi, vanno dette. 
Nel buio di una stanza. Sul parapetto di uno strapiombo. Tra la confusione di una discoteca. 
Ma vanno dette. O scritte.
Vanno sussurrate. O urlate. O messe su carta per essere platealmente esposte al mondo intero. 
Sono una codarda, lo sono sempre stata.
Peccato che io scriva meglio di come parli.

Nei miei sogni, ti incontro in intense conversazioni
Ci svegliamo entrambi in letti vuoti, in differenti città
E il tempo rallenta dolcemente nel cancellarti
E tu hai i tuoi demoni, e tesoro, somigliano tutti quanti a me


Caro primo amore,
questa è una lettera d'addio. L'ennesima, plateale (si spera ultima) lettera d'addio. Se penso alla possibilità che tu lo legga, ho le vertigini. Perché le parole possono curare e ferire, rammendare e scucire, salvare ed uccidere. E in questo caso le parole che mi hanno sferrato il colpo mortale sono quelle che non ci siamo detti. Che non ti ho detto. Ebbene, sto per rimediare.

Mentre scrivo, inchiostro blu su un foglio a quadri un po' retro, mi fisso la pelle bianca, tanto chiara da mostrare tutto quello che c'è sotto. Mi scorri nelle vene, nelle arterie, perfino nei capillari come veleno e antidoto, in un miscuglio fatale che mi dà dipendenza. Mi chiedo se anche io ti scorro dentro, ormai che è tutto finito e che ci limitiamo ad un paio di sguardi e saluti imbarazzati quando ci incontriamo, in un clima di perenne distacco.
Se io ti chiedessi di ricordarti di quando non era così, rifiuteresti? Fa ancora troppo male l'essersi negati un sentimento di bambini troppo cresciuti per essere tali e troppo immaturi per essere adulti?
Fa male, fa ancora troppo male, ora che tutti i pezzi vanno al loro posto e la tua sofferenza appare come su pellicola, in un negativo ancora più evidente del mio. Fa ancora troppo male perché non c'è stato un distacco netto, che ci fa provare la nostalgia di qualcosa che non è mai stato nostro, mentre camminiamo separati per le strade che avremmo dovuto percorrere con le mani intrecciate, mentre osserviamo i posti di cui non abbiamo condiviso lo spazio.
Ci perdiamo man mano, poco a poco, tu lungo le vie che percorri in motorino e io per i metri che misuro a passo di danza, con una lentezza massacrante, la stessa che ci ha accompagnati nell'inverso processo dell'innamoramento.
Ci viene naturale tornare al punto di partenza, ancora e ancora, in un ciclo senza fine che si sta portando via la nostra sanità mentale. Credi che io non ti conosca, pensi che io non mi accorga, ma vedo i tuoi sorrisi falsi e leggo i tuoi occhi tristi, di cui forse ormai non sono la sola causa.
E se questo continuo infilzare il coltello nella carne non ci basta, ci pensa il nostro inconscio a fare il resto.
Non ti vedo per settimane e non ti parlo da mesi, prego di essere pulita e mi convinco che lo sono, ma poi mi trovi nel sonno e quando ti abbraccio per l'ultima volta non riesci a staccarti più da me. O mi baci, mi avvolgi un braccio attorno alla vita come se fosse consuetudine (come se potessere salvare la tua, di vita), come se ce lo fossimo mai concesso.
I sogni in cui mi appari dicono più di me che di te.
Chissà se adesso tu sogni un'altra; da una parte non sopporto il pensiero e dall'altra lo spero per te, spero che ti sia liberato da questo vincolo da cui io non riesco più ad uscire.
E pensare che quando ci siamo conosciuti il cuore te l'aveva fatto a pezzetti qualcun altro; io sono forse stata per te aria fresca, una possibilità di riscatto? Tu per me eri la persona giusta al momento sbagliato: che l'amore arrivi quando non lo si attende è vero, confermano le cicatrici sulla mia pelle. Adesso non siamo che dolorosi promemoria l'uno per l'altra, un'eclissi, un incontro così raro che è doloroso da guardare e può accecare gli impulsivi. Noi siamo stati cauti e la timidezza ci ha allontanato in questo intreccio di scelte sbagliate, in cui tu sei divenuto il mio demone ed io il tuo.
Hai donato vita alla parte più remota di me e poi, intenzionalmente o no, mi hai uccisa.
Queste parole sono scritte con il mio sangue sui fogli che hanno asciugato le mie lacrime e, anche se so che per te non è stato facile, delle volte vorrei solo servirti la vendetta su un piatto d'argento. Vorrei essere capace di odiarti, di maledirti più di quanto ho già fatto: quanto marcio ha provocato il tuo cuore ferito?
Ad un certo punto hai iniziato a volermi fare male e io ho reagito di conseguenza, in una guerra fatta di incontri sleali e armistizi di dubbia necessità, in cui amore e odio si sono confusi lungo le battaglie.  Quando abbiamo deposto le armi era troppo tardi, eravamo ormai due animali feriti pronti a scappare con la coda tra le gambe e troppe ferite da guarire.
Ferite profonde, luride, infette, coperte da bende intrise di illusioni e sogni mancati, un contentino troppo scarso per riempire il vuoto di un amore scarno. Carbone ardente sotto i piedi, lama alla gola, pistola alla tempia, pugnalata alla schiena, sale sulle mie piaghe, fonte principale di tutti i miei mali. Un errore.
E ti rifarei, con tutto l'odio, tutto il sangue, le lacrime che non ti ho lasciato asciugare, il sonno perduto ad un soffio da te, con tutti i demoni e la mestizia cronica che ne è scaturita, con tutto l'amore. Proprio tutto rifarei e lo rifarei meglio, per cambiare il finale. Questo, infatti, lascia l'amaro in bocca.
Intanto, però, è il nostro finale e me lo tengo, giusto per avere qualcosa che sia anche tuo, perché il cuore che mi hai dato te l'ho restituito. Forse, il mio te lo sei tenuto con gli interessi.

Ti odio. Mi manchi. Va*******o dal profondo del mio cuore spezzato. Ricordati di me.
Io la cura, tu la piaga.
Io il veleno, tu l'antidoto.
Non tornare stanotte, va bene così. Va bene per sempre.

Addio.


Con amore, 
-Maria Federica

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