Decade di fuoco

Youth is a dream, a form of chemical madness.


Mi sono fermata sempre più spesso, negli ultimi mesi, a ripensare al valore del periodo che sto vivendo. 
Adolescenza.
Teenage.
Che per gli adolescenti è uno strazio, perché è la quintessenza dell’instabilità, del cambiamento. Mai nessuna certezza, o decisione definitiva, solo un’incostanza e una volubilità così costanti da sfinirci. E forse, proprio per tutti questi dolori, che più che dolori veri e propri sono gioie che si fanno attendere e poi non arrivano mai, finiamo per temprarci, per cedere all’abitudine. Diventiamo adulti, infatti, quando il male non è più la conseguenza ultima del peggiore degli sbagli, ma, semplicemente, un’opzione. Molto spesso la più probabile.
Per gli adulti, invece, è una sorta di età dell’oro da rivangare, celebrare e a cui non si può che guardare con nostalgia. È perché è l’ultimo periodo della vita che si vive con una certa spensieratezza che bisogna glorificarlo sino a creare un’idea così ben definita e mitizzata da creare uno standard per gli adolescenti stessi.
È strano, perché in questa maniera si crea una sorta di paradosso in cui noi ragazzi ci sentiamo frustrati perché non riusciamo a goderci la nostra età con quella spensieratezza e quella gioia che “i grandi” tanto ammirano. Sentiamo allora un senso di perdita, di rimorso per quello che non riusciamo a vivere.
Il sugo della storia è proprio questo: non tutti hanno lo stesso stile di vita. Non tutti hanno lo stesso carattere. O gli stessi permessi. L’adolescenza, prima di ogni stereotipo da film/sitcom degli anni ’00, è prima di tutto confusione. Poi frustrazione. Poi delusione. Poi senso di colpa. E poi altre diecimila emozioni, ognuna diversa dall’altra, in una giostra infinita in cui i nostri sentimenti scommettono su quale di essi ci farà venire la nausea. È una montagna russa di fissazioni, paranoie, casini, oh, casini a non finire. Non c’è niente da ridere. Eppure non è difficile trovarvi un senso di poesia, comunque una speranza in questa crescita dolorosa un po’ miracolosa e tutta per i fatti suoi. E non è romanticizzazione del dolore, è un riconoscere che, alla fine, il male serve a qualcosa e, molto in fondo, gli adulti hanno ragione almeno su una cosa: che il male, rispetto a loro, riusciamo a dimenticarlo molto più facilmente.
L’incertezza, l’ignoto, l’ansia che ne deriva sono tutte conseguenze tipiche di quello che non è altro che un periodo breve, condito da ogni possibile eccesso- una mia insegnante, anni fa, diceva “voi ragazzi sentite tutto amplificato, per voi un quattro è la fine del mondo; ma ditemi, cosa è un quattro in confronto all’immensità dell’universo?”. 
Ed oggi come oggi, agli sgoccioli della mia stessa adolescenza, che sembra avere i minuti contati, non mi sento di essere in disaccordo con lei.
Ho passato questi ultimi anni a tremare per ogni guaio come se fosse il disastro che dovesse porre fine alla mia vita, a fare di ogni piccola cosa un dramma, come se semplicemente il mio corpo non rispondesse ai miei comandi che cercavano di calmarlo. A volte, in realtà, c’è molto più di inconscio nei nostri comportamenti di quanto noi non ci accorgiamo- ed è questo il punto, non ci possiamo fare niente.
Questa mezza decade di fuoco (anni intensi, forse i più intensi di tutti in quanto a emozioni) a volte si manifesta come una vettura di cui si perde il controllo, come se si avessero i sensi offuscati, e da cui non si riesce bene a cogliere la posizione che si è raggiunta.
È una brace che brucia troppo intensamente e troppo in fretta, che stordisce, che spesso spaventa senza motivo reale (quante volte mi sono tirata indietro da cose che pensavo mi avrebbero fatto male e invece erano completamente innocue), ma attorno a cui si danza e si canta insieme, noncuranti dei tizzoni ardenti e delle scintille- a volte ci si scotta, chi più, chi meno.
Ogni elemento sembra essere pervaso da questo calore, come se ogni aspetto avesse vita e anima propria, o un significato nascosto da ricercare, che proprio non ci può tenere lontani da quello che desideriamo e quando lo siamo proviamo quel senso di perdita con cui alla fine tutti dobbiamo fare i conti.
E tutto ciò ha uno sfondo sconosciuto, il futuro, di cui parliamo ogni giorno come se fosse lontano, come se fosse immenso e già programmabile (chissà dove vanno a finire tutti i nostri propositi una volta che ognuno va per la propria strada), così definito che la sera lo si può riporre nel cassetto e non pensarvi per andare a fare baldoria, come se lo si potesse dimenticare o buttare.
Un giorno, quando il futuro sarà già passato, avrà tutto la stessa importanza? Lo stesso fuoco, la stessa anima?
O quelle emozioni forti, irrazionali, caotiche, sono solo una reazione chimica che non si può ripetere, che davvero accade solo mezza volta nel giro di un’esistenza?
Un fallimento avrà lo stesso sapore amaro, il primo bacio lo stesso batticuore, un litigio la stessa angoscia? Se o quando saremo dall’altra parte e i nostri figli o nipoti o figliocci ci diranno “alla mia età tu facevi i miei stessi sbagli se non peggiori” saremo in grado di guardarci dentro e ripescare a ritroso la sensazione che dava quel pezzetto di libertà? O ci faremo spegnere dalla disillusione, ammansire dalla famiglia, dal lavoro, dalle necessità, come se arrivati ad una certa la vita si finisse e basta?

Ora voi lettori vedendovi tirare fuori queste domande possibilmente vi aspetterete una risposta.

Ma (sì c’è un ma) per un articolo intero non ho fatto che ripetere come siamo tutti senza uno stralcio di risposta, non credo di potermi contraddire proprio ora (come se mi fosse rimasto uno stralcio di dignità letteraria).
Eh... beh, come concludere? 


-Maria Federica

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